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CRITICA ANIMATA
di Angela Forti
Tutti gli elementi assumono, in teatro, una propria forma. Non necessariamente visibile, tangibile: può essere una forma drammaturgica, scenografica o affidata alle componenti meno materiali della scena.
L’acqua, in teatro, forse più di altri elementi, ha uno statuto antico e complesso che forse dipende dalla difficoltà di avere realmente questa materia all’interno di una scenografia: un elemento agognato ma difficile, da contenere e da dirigere.
Senza dubbio chiedersi che ruolo abbia l’acqua nel teatro non può prescindere dall’analizzare il valore e l’ascendente che essa ha, da sempre, sull’immaginario e la concezione umana della vita, anche grazie alle proprietà fisiche e chimiche di cui gode. Acqua è, di per sé, sinonimo di vita: ciò da cui la vita nasce, ciò che nutre e compone la vita.
Ma essa, nella sua potenza, ha anche un carattere catastrofico, una forza “della vita che rimane” nonostante tutto e tutte le cose, e pure a loro discapito. L’acqua dimostra una proprietà fortemente archetipica, declinabile in diversi contesti e con diversi significati.
Una delle associazioni forse più frequenti è quella con il tempo. L’acqua scorre, proprio come il tempo. L’associazione funziona, però, spesso, anche per opposizione: il tempo scorre, ma l’acqua rimane.
Credit foto: faber1893 Getty Images - Curon Venosta – Il campanile che affiora dalle acque del Lago di Resia.
Lo spettacolo Curon/Graun della compagnia OHT Office for a Human Theatre è incentrato sulla vicenda del paese altoatesino Curon (Graun in tedesco), che, nonostante le proteste e i tumulti degli abitanti, venne interamente sommerso nel 1950 per permettere la costruzione della diga che in val Venosta unificò il Lago di Resia e il Lago di Mezzo.
Il regista Andreatta sceglie per questa operazione i codici del teatro musicale e dell’ibridazione con il linguaggio audiovisivo. In scena gli unici attori sono i musicisti e la riproduzione fedele del campanile di Curon che ancora oggi emerge, come monito, dalle acque.
L’acqua è un elemento centrale di questo spettacolo: la vediamo, certo, nelle immagini proiettate sullo schermo, nella valle sommersa.
Tuttavia, il suo habitat qui non è l’immagine, bensì la musica. L’intero spettacolo è basato sulle composizioni del contemporaneo Arvo Pärt: oltre ad avere ereditato e rielaborato tradizioni musicali come quella del finlandese Jean Sibelius (nella cui opera l’elemento acquatico è assolutamente ricorrente), Pärt è l’inventore della tecnica del Tintinnabuli, una struttura a due voci in cui si intrecciano, in un ambiente musicale generalmente minimalista, l’arpeggio di una triade tonica e un movimento graduale diatonico.
Tintinnabuli construction, Arvo Pärt
Viene, poi, La tempesta. Nel testamento di William Shakespeare l’acqua è una componente essenziale. Un’isola, persa tra le onde degli oceani. Il sortilegio di un mago, che controlla le onde e le piogge per proteggere e preservare il proprio piccolo regno, e il proprio amore. La tempesta - e la sua acqua - hanno trovato nel tempo numerose e diverse interpretazioni.
Se Strehler ne fece grandi tessuti animati che inglobavano la platea degli spettatori registi come Roberto Andò scelgono versioni ancora più eloquenti: nella sua Tempesta, spettacolo controverso dal punto di vista critico, un sipario d’acqua scrosciante ci introduce ad un una stanza completamente, realmente allagata dove abbondanti schizzi seguono ogni passo dei personaggi - in galoches. Un memorandum, quell’acqua che qui si fa condizione dell’anima: il tempo si è fermato sulla magica isola di Prospero, e con lui l’acqua che ristagna paludosa.
La tempesta, regia di Giorgio Strehler
La tempesta, regia di Roberto Andò
Anche in associazione al contesto religioso e spirituale l’acqua ha senz’altro un ruolo da protagonista: per esemplificare la doppia natura di questo elemento è sufficiente richiamare le tradizioni cristiane dell’acqua battesimale, in grado di purificare dal peccato, e del diluvio universale, la punizione divina per eccellenza.
Un diluvio universale in miniatura è ciò che racconta, ad esempio, l’incredibile testo dell’australiano Andrew Bovell, When the rain stops falling, messo in scena in Italia con la regia di Lisa Ferlazzo Natoli.
In questo caso l’acqua è ciò che permane, incessante, mentre il tempo scorre. Generazioni diverse si succedono e scambiano nel testo di Bovell, sotto una pioggia che non sembra avere alcuna intenzione di smettere; una pioggia al contrario, che unisce il ciclo delle acque e consegna ai personaggi un insolito enigma: un pesce, piovuto sulla tavola di una famiglia disgregata.
Nella regia della Natoli, fedele alla messinscena originale, non c’è alcuna traccia materiale dell’acqua. Alla pioggia incessante ci fanno pensare gli ombrelli e gli impermeabili dei personaggi.
L’acqua, qui, è una componente fondamentalmente testuale e il perno di una dinamica drammaturgica efficace: la pioggia non cessa finché l’errore non smette di perpetrarsi uguale a sè stesso, da una generazione all’altra.
La pioggia è un brutto vizio da abbandonare, un meccanismo da infrangere. Il pesce, un dono da interpretare. L’acqua ha un carattere fortemente legato al concetto del sacro anche nel lavoro di autori come Romeo Castellucci: nel Paradiso l’acqua diviene il luogo di Dio, una calma marea dove la parola del sacro galleggia e risuona.
In Bros i corpi scivolano sul palcoscenico bagnato, che sdrucciola, su una partitura per organo idraulico solitario.
Qui l’acqua rappresenta uno strumento di tortura e, insieme, il tentativo di cancellare le prove. Ma in vano. Quest’ultima metafora è ricorrente nella letteratura teatrale, in molte forme: dall’acqua con cui Lady Macbeth tenta inutilmente di lavare il sangue di Re Duncan; agli spettacoli di Tadeusz Kantor dove sempre un personaggio è preposto al lavaggio non soltanto dei corpi; all’acqua sporca con cui Marina Abramovih ossessivamente strofina le ossa dello scheletro.
Cleaning the mirror, Marina Abramovic
Fino al tavolo dello spettacolo Un po’ di più, del giovane duo Barnabeu/Covello, che raccoglie senza tregue lo sgocciolare del rapporto amoroso, la goccia dopo goccia che si fa cascata e inonda. Fino a quei luoghi del teatro - come le aride e desolate lande beckettiane - dove l’acqua proprio non c’è, e in questa assenza, nell’allucinazione di una caraffa che pende dall’alto, fa sentire tutta la propria mancanza.
Sono numerose e varie le forme che l’acqua può assumere nello spazio magico del teatro. Ovviamente l’excursus appena fatto non può e non vuole essere esaustivo, bensì si è cercato di analizzare alcune delle metodologie, tra le più frequenti, di mettere in scena l’acqua, in spettacoli molto differenti e lontani tra loro, ma accomunati dal tentativo di racchiudere la potenza di questo strano, affascinante elemento, nei segni del teatro.
Miscellanea di video di spettacoli citati nella rubrica.
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